IL TRIBUNALE
   Letti gli atti del ricorso ex art. 700 del c.p.c. proposto al  g.i.
 da Di Carlo Mirella nei confronti:
     1)  del  dott.  Giuseppe  Varisco,  quale curatore del fallimento
 della S.n.c. Dueazeta Elettronica di Zattiero R.
     2) della Lem Laser S.r.l.;
     3) della Ferramenta Bardelli S.a.s.;
   Visto  il  suo  reclamo  ex  art.  669-terdecies del c.p.c. avverso
 l'ordinanza 9 giugno 1995 del g.i. nella causa  di  opposizione  alla
 sentenza dichiarativa del fallimento della Dueazeta Elettronica;
   Sentite  le  parti  in  camera  di consiglio, pronuncia la seguente
 ordinanza.
   La signora Mirella Di Carlo era con il marito socia illimitatamente
 responsabile della S.n.c. Dueazeta Elettronica di  Zattiero  R.    la
 societa'  ed  i soci furono dichiarati falliti con sentenza di questo
 tribunale  n. 66/1992 del 5 marzo 1992. Con citazione 1  aprile  1992
 entrambi  i  coniugi hanno proposto opposizione alla dichiarazione di
 fallimento assumendo essere stata la loro societa' impresa  artigiana
 la cui attivita' era cessata oltre un anno prima del fallimento.
   Nel  marzo  1992  la  Di  Carlo era stata candidata nel collegio di
 Udine per la Camera dei deputai ed il Senato, finendo  per  riportare
 svariati  voti  di  preferenza;  quindi  aveva  visto  sospeso il suo
 diritto di elettorato attivo e passivo ex  art.  2,  n.  2,  legge  7
 ottobre  1947, n. 1058. Potendo essere nuovamente candidata per altre
 elezioni politiche, si rivolgeva al giudice istruttore della causa di
 opposizione al fallimento - ex artt. 669-quater, e 700 del  c.p.c.  -
 domandando la sospensione o la revoca degli effetti della sentenza di
 fallimento limitatamente al godimento del suo diritto elettorale, sul
 presupposto  di  un  pregiudizio irreparabile nel tempo ocorrente per
 vedersi accogliere l'opposizione.
   Il giudice istruttore pronunciava il 9  giugno  1995  ordinanza  di
 rigetto del ricorso avverso la quale la Di Carlo ha proposto entro il
 decimo giorno reclamo al collegio con il quale domanda l'accoglimento
 del   ricorso   e,   in   via  pregiudiziale,  solleva  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967,  n.
 223,  come novellato dalla legge 16 gennaio 1992, n. 15, in quanto in
 contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
   Appare non manifestamente infondata la  questione  di  legittimita'
 costituzionale della norma da applicare, in rapporto all'art. 3 della
 Costituzione.  Il  contrasto  con  l'art.  97 Cost., richiamato dalla
 reclamante, non e'  invece  pertinente  giacche'  tale  ultima  norma
 riguarda  la pubblica amministrazione, non i rapporti politici ovvero
 l'ordinamento delle Camere.
   La questione e' rilevante nel giudizio sulla  misura  cautelare  in
 quanto   dalla   applicazione   della   norma   deriva  lo  stato  di
 ineleggibilita' di cui la ricorrente si duole e  che  vorrebbe  veder
 annullato.
   Si deve constatare che nel tempo necessario per ottenere sentenza e
 veder accolta (eventualmente) la sua opposizione, sarebbe sicuramente
 ben  piu'  che minacciato (in quanto del tutto cancellato il diritto)
 l'esercizio del diritto di elettorato della  ricorrente:  infatti  e'
 forse  vicina la fine della legislatura - se si deve credere a quanto
 affermano esponenti politici di primo piano  in  Parlamento  e  sulla
 stampa  -  e  dunque non e' in un lontano futuro il momento in cui la
 ricorrente potrebbe ricandidarsi per tentare di conquistare il seggio
 parlamentare. Devono percio' ritenersi  sussistere  i  presupposti  a
 base  del  ricorso  ex  art.  700  del  c.p.c.  circa la imminenza ed
 irreparabilita'  della  minaccia  al  diritto,  al  di  la'  di  ogni
 considerazione,  che  il  g.i.  ha  pure fatto, sulla imminenza delle
 elezioni, sulla prova dell'offerta di candidatura, e simili.
   D'altra parte, allo stato delle norme di legge, il ricorso  ex art.
 700  non  potrebbe  essere  accolto. Con l'art. 2 del d.P.R. 20 marzo
 1967, n. 223, come novellato dalla legge 16 gennaio  1992,  n.    15,
 l'imprenditore  dichiarato  fallito  e'  privato  dalla sua capacita'
 elettorale per cui non e'  elettorale  e,  quindi,  non  puo'  essere
 candidato.    Tale  condizione  di incapacita' dura cinque anni dalla
 data della sentenza di fallimento e puo' cessare in anticipo soltanto
 con l'accoglimento dell'opposizione alla sentenza stessa.
   Tale disciplina il legislatore ha inteso introdurre  in  attuazione
 dell'art.  48/3  Cost.  secondo il quale "il diritto di voto non puo'
 essere limitato se non  per  incapacita'  civile  o  per  effetto  di
 sentenza penale irrevocabile e nei casi di indegnita' morale indicati
 dalla legge".
   Il  grave  ed  irreparabile  danno  al soggetto titolare, prima del
 fallimento, del diritto di voto - e corrispondentemente  del  diritto
 ad  essere  candidato  per  poter essere eletto - non puo' certo piu'
 misurarsi sulla durata normale della legislatura, come ha ritenuto il
 giudice istruttore nella sua ordinanza, in quanto con  l'introduzione
 del  sistema  maggioritario,  per  eventi imprevedibili ma possibili,
 puo' rendersi  necessario  indire  elezioni  suppletive  per  qualche
 collegio del quale sia venuto a mancare l'eletto.
   Inoltre  e'  di  comune  conoscenza  che  nel  divenire  della vita
 politica il mutare delle  condizioni  e  delle  alleanze  porta  come
 conseguenza  che  l'essere lontani dalla vita politica anche per poco
 tempo equivale a perdere il "quoziente di  gradimento"  ed  a  vedere
 definitivamente compromessa ogni possibilita' di elezione.
   Pertanto il richiesto provvedimento di sospensione investirebbe uno
 degli   effetti   della   sentenza   dichiarativa  del  fallimento  -
 sospendendolo  -  e  renderebbe  possbile  l'esercizio  del   diritto
 elettorale.
   La  Corte  costituzionale  ebbe  gia'  ad  occuparsi della medesima
 questione che con sentenza n. 43/1970 giudico' infondata in  rapporto
 alla  pretesta illegittimita' costituzionale della norma dell'art. 2,
 n. 2, del d.P.R. n. 223/1967.  In  quella  occasione  fu  escluso  in
 particolare  il  contrasto con l'art. 48 Cost. analizzando le vicende
 relative all'approvazione di tale articolo  da  parte  dell'Assemblea
 Costituente   (in   quano  il  testo  originario  proposto  conteneva
 limitazioni al diritto di voto unicamente per  incapacita'  civile  e
 condanna penale irrevocabile) la quale fini' per approvare l'aggiunta
 pur  rimettendo  alla  legge  ordinaria  di  individuare  i  casi  di
 indegnita' che legittimano l'esclusione dal diritto  elettorale.  Fra
 questi   il   legislatore,  dalla  legge  7  ottobre  1947,  n.  1058
 (elettorale)  a  quelle  successive,  ha  costantemente  incluso   il
 fallimento fra le cause di esclusione dal diritto di voto rifacendosi
 ad  un giudizio anchilosato che, nel tempo, avrebbe potuto essere ben
 altrimenti rimediato.
   Nella seduta dell'Assemblea  Costituente  dal  22  maggio  1947  il
 relatore per l'art. 48 della Carta costituzionale ebbe a dire che, in
 relazione   alla   futura   legge   elettorale  il  cui  progetto  li
 comprendeva, se  alla  disposizione  della  Costituzione  che  doveva
 regolare  la  materia  si  fosse  aggiunta  la  categoria dei casi di
 indegnita' morale, si sarebbero potuti e dovuti comprendere  anche  i
 "cittadini che non hanno fatto onore ai loro impegni"; tale scelta fu
 appovata lo stesso giorno dall'assemblea.
   Ma a distanza di quasi 50 anni da allora il giudizio negativo sulla
 persona  del fallito nel sentire comune ha perduto quasi del tutto la
 sua  carica  tanto  che  in  una   recente   sentenza   della   Corte
 costituzionale  (n.  203  dd.  18-30  maggio  1995) puo' leggersi uno
 spunto di apertura verso diverso indirizzo, con l'esplicito  richiamo
 al   notevole   incremento   di  dichiarazioni  di  fallimento  anche
 "incolpevole"  ed  alla  riflessione   dottrinale   la   quale,   nel
 superamento   della   sistemazione   tradizionale   imperniata  sulla
 "indegnita'" del fallito, ha tenuto altresi'  conto  delle  eventuali
 conseguenze penali produttive di ulteriori effetti giuridici.
   Se,   pero',   compete   al   legislatore   ordinario  di  valutare
 comportamenti da includere fra i "casi di indegnita' morale"  di  cui
 all'art.  48  Cost.,  per  cui  il  caso  in  questione  in  astratto
 sfuggirebbe al controllo  di  legittimita'  costituzionale,  vi  deve
 essere  la  possibilita' di tale controllo alla luce del principio di
 ragionevolezza, altre volte utilizzato dal giudice costituzionale. In
 siffatta prospettiva si osserva come appaia contrasto dal citato art.
 2 del d.P.R. n. 223/1967 con l'art. 3 Cost., in quanto l'effetto  che
 qui interessa dipende da una indegnita' presunta, al di fuori di ogni
 reale  verifica  della  colpa del soggetto, e si rivolge unicamente a
 danno  di  alcuni  dei  soggetti  che,   avendo   posto   in   essere
 comportamento  parimenti riprovevole (se tale puo' in astratto essere
 considerato l'aver accumulato debiti), sono raggiunti da sanzione  la
 quale,  invece,  lascia indenni altri, come il piccolo imprenditore e
 l'artigiano.